Ladakh: Il Tetto del Mondo

Himalaya h. 09.15

A 3.500 metri l’aria è rarefatta, quel tanto che basta per far girare la testa se si affretta di poco il passo, ma la vista da quassù è pura luce. Vedo lontano. Seguo il profilo dei monti che svettano fieri, spolverati di bianco, sotto il peso degli anni che portano. Vedo lontano, eppure questo panorama così vasto e potente sembra portarmi in una dimensione molto più intima e profonda, un universo personalissimo ed incredibilmente vicino: qualcosa che ha a che fare con l’anima.

Ci troviamo nel Monastero di Thiksey, tra i più noti insieme a Stock e Shey, in prossimità di Leh, capoluogo dello stato federato del Jammu & Kashmire nell’India del nord. Da una finestrella vicina posso sentire il suono cadenzato delle voci dei monaci che ripetono all’unisono il loro mantra e l’odore d’incenso che si mescola a quello dell’aria pungente, mentre davanti a me centinaia di piccole preghiere colorate assecondano il vento.

Abbiamo assistito da poco ad una sessione di preghiere in una piccola sala avvolta dalla luce soffusa delle candele, dove spiccano i colori vivaci del rosso e dell’arancio, mentre dietro le quinte ci viene servito del chai fumante con qualche biscotto. La maschera della serietà e soprattutto della quiete viene meno quando avvisto un piccolo monaco per le scale, sfuggire alla disciplina per rincorrere la merenda e in quel sorriso dall’aria furbetta, rivedo tutti i bambini del mondo e la loro meravigliosa innocenza.

Ci siamo lasciati alle spalle la caotica Katmandu in Nepal, per dirigerci verso il “tetto del mondo”, in quello che alcuni amano chiamare il Piccolo Tibet. Bussando a casa dei rifugiati tibetani, sfuggiti al controllo della dura Cina, ci siamo affacciati in una terra che conserva ancora il suo aspetto originario, oserei dire per poco, nella quale una quieta serenità regna sovrana e non si sa come ci si sente a posto con il proprio cuore.

Qualche ora dopo…

È pomeriggio e mentre gli indaffarati addetti ai lavori dello Spic e Span, l’albergo nel quale alloggiamo, ci portano l’ennesima lemon soda (acqua frizzantissima con molto limone, servita “salty or with sugar”), ci apprestiamo a preparare la prossima avventura nella Nubra Valley, al di là di uno dei passi montani più alti del mondo. Sarà che siamo reduci da una meravigliosa sessione di meditazione al Mahabodi Center, ma sono sempre più convinta che questa cittadina sia avvolta da un so ché di magico, forse è per questo che il Dalai Lama ama passare qui le sue estati. Per via dell’altitudine ci abbiamo messo qualche giorno a fare capolino dalla nostra stanza per avventurarci tra i mercati e le stradine e salire fin su alla Fortezza, sede della famiglia reale fino al 1830. Sono persino riuscita a trovare un posticino stile “Agraba”, che prepara vero caffè fatto con la moca! (Il Lala’s Cafè). Mentre sono in contemplazione del saliscendi dei tetti che circondano questo piccolo luogo accogliente, mi rendo conto di essere davvero felice di essere qui. M. dice sempre che i primi viaggi che vale la pena fare, sono quelli nel luoghi che prima o poi cambieranno, per inseguire la modernità galoppante e qualche ruspa e alcune colate di cemento mi fanno pensare che questo scenario non rimarrà immutato a lungo.

Nubra Valley

Non so esprimere la sensazione che si provi ad attraversare un deserto di montagna, una contraddizione bellissima fatta di cime innevate che sprofondano in un panorama sabbioso, con qua e là qualche sprazzo di verde, che proprio non ci si aspetterebbe nel bel mezzo del crudo paesaggio montano.

La Nubra Valley si apre difronte a noi in un susseguirsi di scenari che tolgono il fiato. Alloggiamo in una piccola guest house in uno dei villaggi della valle, dove la vita è organizzatissima e mi domando davvero come, con il sopraggiungere del rigido inverno, ogni attività possa mantenere il proprio corso – se non altro il freddo scoraggerà le bande di moscerini che ci sorprendono minacciose tra le fronde degli alberi.

Per raggiungere questa valle incantata abbiamo attraversato il passo montano di Khardung, uno tra i più alti del mondo percorribili in auto a 5.602 metri, districandoci tra i precipizi e i poco incoraggianti scheletri di automobili che incontravamo per strada.

Nei 20 minuti di autonomia che abbiamo avuto prima di iniziare a soffrire l’altitudine, ho fatto giusto in tempo a fare un pit-stop in un bagno improvvisato – che mi ha fatto molto patire il fatto di essere donna in un paese straniero – ma è sicuramente andata peggio alla mia compagna di viaggio, che si è dovuta rifugiare in un accampamento militare appostato li in cima per tenere sotto controllo le riserve di ossigeno.

Pangong Tso

Passare una notte a 4.250 metri di altitudine è decisamente un’esperienza. Il lago di Pangong Tso è il maggiore per ampiezza nella catena montuosa dell’Himalaya. Si estende per 134 km in lunghezza ed ha una larghezza massima di 5 km; tre dei quali si trovano in Cina. Scrutando il paesaggio è dura intravederne le sponde opposte, ma ci si perde in un’enorme massa d’acqua cristallina. Appena arrivati è iniziata la caccia per un alloggio improvvisato. Dopo un primo memorabile incontro con una coppia di anziani del luogo, che ci ha offerto un riparo arrangiato, abbiamo optato per un camping a bordo lago, dotato di calde coperte e poco più.

Il cielo stellato e limpido che si vede da quassù vale in viaggio, forse una delle esperienze più belle mai vissute – immersi nel silenzio assordante delle “notti montanare” come le chiamerebbe J.Kerouac, sdraiati sulla schiena a contemplare il moltiplicarsi veloce delle luci nel cielo, consapevoli di voler andare oltre e di essere ben piantati al suolo allo stesso tempo – uno scenario che porterò sempre nel cuore. La via del ritorno è stato tutto un programma: le 6 ore di viaggio previste sono diventante 10 e se pensavo che il TNT fosse solo un prodotto di Willy il Coyote, ho sperimentato che qui è un alleato prezioso per fronteggiare frane di vario tipo e liberare le strade con serenità. In tutto questo il mio mal di montagna non ha certamente giovato. Ad ogni modo siamo sani e salvi e nuovamente nel nostro piccolo rifugio, pronti a pianificare un nuovo itinerario.

Lungo le sponde dell’Indo

Superluna la chiamano: quella particolare circostanza in cui una fase di luna piena coincide anche con il momento in cui la Terra si trova più vicina al nostro satellite. Ci troviamo in un eco resort sulle sponde dell’Indo a contemplare la luce forte della luna riflettersi sull’acqua e ho passato la serata a studiare tutte le sue sfaccettature al telescopio.

Abbiamo dedicato tre giorni di viaggio a percorrere la strada che congiunge il fiume Zanskar all’Indo – il cui bacino è il più grande raccoglitore delle acque che provengono da tutte le vallate che costeggiano il suo corso – passando per Lamayuru e districandoci tra le sue valli. La più affascinate è chiamata “valle della luna”, appunto, in virtù delle sue bizzarre erosioni che ricordano i crateri del nostro satellite. Il monastero di Lamayuro è arroccato tra le rocce come un castello delle fiabe in stile Himalayano e di tanto in tanto lungo la strada s’incontrano le rovine qualche antico stupa.

Piccoli villaggi punteggiano il panorama e il paesaggio lunare arido dei monti si alterna all’oro splendente dei campi d’orzo che contraddistinguono le vallate. Il tutto è avvolto dal profumo dolce delle albicocche messe a seccare sui tetti delle case in previsione dell’inverno (l’albicocca è il frutto più coltivato in Ladakh – sono più piccole di quelle a cui siamo abituati, ma saporitissime). Valle della luna

A breve ripercorreremo il viaggio fatto all’andata per lasciare il fresco dei monti e tornare ad un’afosa ma sempre affascinante Katmandu passando per Delhi.


Rapidi consigli di viaggio:

  • La stagione migliore per visitare il Ladakh è ovviamente l’estate, a meno che non siate particolarmente temerari. L’India è quasi un continente quindi se nella caotica Delhi troverete 50 gradi e un tasso di umidità da togliere il fiato, quassù si passa dai 27 gradi di giorno ad una piacevole aria fresca la sera, quindi attrezzatevi;
  • Vi suggerisco di raggiungere Leh con un volo interno da Delhi, mettendo in conto un paio di giorni in hotel per abituarvi all’altitudine. Il viaggio in macchina sarebbe certamente più bello e salutare, ma più della metà del percorso è segnato dai Monsoni che rendono le strette strade di montagna impraticabili;
  • Per gli spostamenti interni alla regione dovrete affidarvi alla guida esperta di spericolati autisti locali, potete facilmente dividere un auto con altri turisti come abbiamo fatto noi e lo stesso vale per le guide, le agenzie del posto sono abbastanza affidabili;
  • Come sempre: viaggiate leggeri, uno zaino è sufficiente purché siate muniti di scarpe da trekking o simili, tranquilli non vi vedrà nessuno indossare lo stesso paio di pantaloni due giorni di fila!

Il cielo è cosparso di nuvole chiare che si confondono dolcemente con la vetta dell’Annapurna. Siamo in volo a 7.000 metri di altezza e la sua cima è proprio li a un passo da noi.

Che spettacolo meraviglioso è questo nostro mondo!

G.M.

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