Yangon General Hospital

Condizioni poco piacevoli, ci costringono a fermarci a Yangon, più del previsto. Sebbene, non sia molto propensa a ricordare le ore passate allo Yangon General Hospital, questo mi offre il pretesto per coglierne il lato positivo, ovvero: Tum Tum.

Immaginatevi, di imbattervi in qualcuno, che stando male, abbia necessariamente bisogno d’aiuto: probabilmente gli indicate l’ospedale più vicino, o se siete proprio di buon cuore, lo accompagnate. Più difficile, credo, sia trovare qualcuno che parlando a stento la vostra lingua, non solo segue tutti i vostri spostamenti, ma monta in macchina insieme a voi, e non vi lascia se non 48 ore dopo, una volta sicuro che siate in buone mani. Tum Tum, l’equivalente di Matthew, in inglese, è stato il nostro angelo custode, in questa occasione e insieme a lui, un suo collega, avendo speso l’intero giorno libero dal lavoro, ad assisterci per qualsiasi necessità, dalle coperte al cibo.

L’ospedale di Yangon è un grosso edificio in mattoni, con diversi piani scanditi dal ripetersi di grandi arcate: ad ogni fila, corrisponde una vasta terrazza. L’interno non deve essere tanto diverso da un ospedale allestito in tempo di guerra, e probabilmente, negli anni ‘40 erano proprio così. I letti non sono disposti in file ordinate, ma occupano tutto lo spazio disponibile, per ospitare il maggior numero di malati. Grandi stanze, dai soffitti alti, si susseguono una dopo l’altra. Non c’è modo di separare uno dall’altro, se non tramite il codazzo di parenti che si accalcano attorno ad ogni brandina. La sofferenza è la stessa di qualsiasi ospedale, accentuata dalla mancanza di privacy, per cui anche i bisogni si fanno in contenitori “en plein air” (che forse data la condizione dei bagni è anche meglio). Il posto più ambito, per una serie di motivi, è la terrazza, dove circola aria e non si ha nessuno avanti e dietro, ma solo accanto. L’inconveniente sono mosche, zanzare e piccioni. I letti non hanno lenzuola e, spesso, capita che la propria brandina, riporti le disavventure del malato precedente. Appena scende la sera, i grossi neon provvedono all’illuminazione, le coperte sui letti aumentano, visto che la temperatura cala quando fa buio, spunta qualche cappello e le famiglie, o gli chi per loro, si accoccolano per terra accanto agli assistiti per mangiare e credo, dormire nello stesso posto.

Noto, per fortuna, che la maggior parte dei pazienti è in la con gli anni, e che il numero delle arrugginite bombole di ossigeno, è molto elevato. Poiché fare paragoni con i nostri standard è del tutto inutile, è necessario contestualizzare. Nonostante quello che possa apparire, infatti, le condizioni tutto sommato sono buone. Il personale è preparato, nonché profondamente umano e l’assistenza continua. I professori si riconoscono subito dal buon inglese, dagli orologi ai polsi e dal codazzo di studenti che li segue, la qual cosa mi conforta. La sanità è gratuita e non ci sono state fatte pagare nemmeno le medicine, nonostante la nostra insistenza, soprattutto per il trattamento “eccezionale” che abbiamo ricevuto, quasi come fossimo vip, del tutto stonati in un contesto simile. Non ho fatto fotografie, per rispetto del dolore altrui, ma penso comunque che un accenno fosse d’obbligo, se non altro, per sottolineare la gentilezza di chi abbiamo incontrato, merce rara e accolta con immensa gratitudine.

Lo Yangon General Hospital è stata una tappa forzata, una deviazione al percorso che ci eravamo preposti. D’altro canto a fare da contrappeso alla rinuncia vi è un insegmaento, grazie al quale comunque, siamo più ricchi:

“Refusal to accept the flow of the world, is the root of all misery”

(Bhagavad Gita)

G.M

 

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