Yangon, Birmania

Quando ero piccola, ero convinta, che, se fossi riuscita a prendere l’aereo di notte, avrei visto la luna molto più grande. Sfortunatamente ho fatto presto i conti con le nostre piccole dimensioni, ma la delusione non ha cancellato quel misto di euforia e sorpresa che provo tutt’ora nello scoprire posti nuovi. Così, ogni volta che prendo l’aereo, e guardo fuori dal finestrino, mi si attorciglia lo stomaco e, mi domando che vite abbiano quei puntini che vedo e dove stiano andando… A Kuala Lumpur, è successo lo stesso, mentre ammiravo dall’alto il disegno strabiliante delle luci nel buio profondo che precede l’aurora.

 

Lo scalo di tre ore, in Malesia, è valso giusto il tempo di un caffè e di riabituarsi al costo della vita, fuori dall’India. Arrivati a Yangon, fuori dall’aeroporto, nessun tuc tuc ci attendeva, ma una fila di taxi ordinati (il cui prezzo non giustificava nemmeno quello della benzina). Abbiamo raggiunto l’albergo un po’ sbigottiti dalla guida calma, dall’asfalto lavorato e dai semafori funzionanti. Niente clacson, niente moto e motorini: ma dove siamo finiti?!

 

La Birmania sembra decisamente più organizzata dell’India, d’altronde è più facile da gestire, viste le dimensioni e abituata al regime dittatoriale. Passeggiando per le vie della città, si avverte poco la presenza inglese del passato, se non in qualche edificio in mattoni rossi e nella topografia.

 

Nonostante la maggior difficoltà di comunicazione in inglese, gli abitanti di Yangon, sono tutti molto disponibili e si danno da fare per aiutarci, in qualsiasi modo. Le attenzioni sono molto più discrete: non ci sentiamo più divi di Hollywood per intenderci, ma, comunque, non passiamo inosservati. La loro lingua, forse più simile al cinese, produce suoni più dolci e non mancano sorrisi profondi e rassicuranti, come se, ogni problema, nascesse già con la sua soluzione.

 

Cambiamo cucina: zuppe, noodles, nonché, qualsiasi tipo di animaletto fritto, per la strada. Sperimentiamo subito le abitudini locali, decidendo si sederci ai tavolini bassi nei marciapiedi di Chinatown, per mangiare spiedini e ovette di quaglia fritte. Mi sembra di aver capito che il menù sia fisso a colazione, pranzo e cena e che, questa, sia di gran lunga, la maniera più comune per nutrirsi, visto che quasi ogni strada della città è punteggiata da sedioline di plastica nane e chioschetti.

 Ho notato, che in tutti questi paesi la presenza del cibo è ingombrante: nonostante ci sia chi muore di fame, le città sono tempestate di bancarelle e minimart, che vendono qualsiasi genere di schifezza impacchettata. In ogni caso, il primo incontro formidabile che abbiamo fatto, è stato un tassista dal capelli lunghi, amante degli americani e del rock californiano, che, per miracolo, ci ha riportati in albergo, probabilmente dopo aver assunto una buona dose di THC, ma tutto allegro: meraviglioso!

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Oggi, arrivata quell’ora del pomeriggio, in cui dagli altoparlanti, vicini ai templi, si diffonde la familiare voce cantilenante dei monaci, ci siamo recati alla ShwedagonPaya.
Si tratta dell’attrazione principale di Yangon: un monumento conico altissimo, rivestito d’oro attorno al quale si ergono tante piccole strutture simili, a formare un complesso maestoso. La nostra visita è durata più del previsto, facendoci perdere tra le sfaccettature dorate, che il sole irradiava andando via, e poi nella luce abbagliante della pagoda che brillava nell’oscurità della notte.

 

Eppure, l’incanto vero, è stato abbassare lo sguardo, verso chi ci stava accanto. Ci siamo seduti a terra per ammirare il via vai di persone, intente a ripetere i loro mantra. Le candele che si accendevano, una dopo l’altra, insieme all’incenso, formavano un cordone infuocato, che ruotava tutto attorno alla struttura e, sebbene non fossimo arrivati li per pregare, essere travolti da tutto questo è stata un’esperienza senza tempo.

Ponendo l’attenzione ai piccoli gesti ho notato, una vecchia signora che suonava una campana per aiutarsi nella preghiera…,

..monaci, avvolti nelle loro vesti color porpora che meditavano in silenzio..,

.. e intere famiglie, dedite a lavare le statue del Buddha.

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Questo gran da fare mi ha fatto riflettere sul valore di questo esercizio giornaliero, cercando di capire quanto queste persone ne siano veramente consapevoli e quanto invece si lascino andare alla leggerezza della pratica giornaliera, che quieta gli animi e fa tornare tutti a casa tranquilli, avendo fatto il proprio dovere. Ad ogni modo, sebbene l’essenza si sia persa, ogni tanto, dietro qualche sbadiglio, l’obiettivo è stato sicuramente raggiunto, tanto che adesso, siamo rasserenati anche noi.

G.M.

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